Molte cose mi passano per la testa. Partono da profonde considerazioni esistenziali e poi trovano riscontro nella musica, nella lettura...
“I Suonatori erano ammassati lì
sopra: suonavano una specie di pianola, un tamburo, uno strumento a fiato.
Questi strumenti facevano un baccano assordante, accompagnando e sottolineando
con violenza inaudita i canti strazianti e patetici degli attori.” (1)
Nel 1961 Pierpaolo Pasolini (insieme ad Alberto Moravia ed Elsa
Morante) si reca in India e riporta le sue impressioni su
un diario di viaggio, più tardi pubblicato con il titolo “L’Odore
dell’India”. Nello stesso anno vengono eseguiti e registrati dal vivo
al Village Vanguard i due brani di John Coltrane, India ed Impressions. Uno
strano parallelismo che ho cercato e voluto, nel tentativo di visualizzare un
mondo così misterioso, così carico di spiritualità e contemporaneamente di
drammatica povertà, dove la vita è così vicina alla morte quasi da poterci
andare oltre.
Un poeta d’immagini e un musicista mistico: leggere l’uno
ascoltando l’altro per trovare riscontri dentro uno stesso contesto storico e
sociale. India è un momento importante del percorso artistico
di Coltrane che coinvolge la sua musica, la ricerca di sé stesso e
delle radici della sua gente, il rapporto della sua vita artistica con i
profondi cambiamenti del mondo. Il sassofonista è affascinato da quella
cultura e dalla musica ad essa intimamente legata: frequenta il sitarista Ravi
Shankar e scopre i raga e quanto essi siano un misto di musica e
filosofia nella loro complessità e nel loro essere dettati dai tempi, dalle
stagioni, dagli stati d’animo. La loro struttura musicale aperta che dà un
senso ciclico di infinito, così come succede ascoltando i canti
gregoriani, forme modali che non “risolvono” mai, influenza
profondamente le sue idee. India nasce da suggestioni legate a quel
mondo, ai raga, e ai canti devozionali. Suggestioni riapparse più
potenti, distorte e amplificate dalla forte presenza di strumenti percussivi
nella parte iniziale di “Om”, album registrato nel 1965 e
pubblicato nel 1968 dalla Impulse!, nella drammatica parte
recitativa tratta dal “Bar-do Thos-grol”, (Il Libro tibetano dei morti) e
nell’esplosione free mista a pulsioni psichedeliche che segue.
Ma India è meno esplicito, più meditativo. Mentre ascolti ti sembra
scivolare sopra le acque del Gange così calme in superficie e
così piene di un ribollente movimento di molecole appena sotto.
“Man
mano che la barca si stacca, vediamo apparire la riva in tutta la sua
estensione: in alto in fondo scintillano le luci, e controluce, si eleva una
specie di città di Dite, ma di proporzioni modeste, quasi rustiche. Sono le
pareti dei palazzi che i maraja e i ricchi si costruiscono per venire a morire
sul Gange (…)” (2).
Immagini e suoni di una terra dove antica miseria
e sofferenza convivono con lo splendore del Taj Mahal, dove l’ampio
tendone dell’induismo un tempo garantiva una pacifica simbiosi di religioni,
dove un occidentale non avrebbe mai compreso a pieno tutto quello che succedeva
davanti ai suoi occhi.
“Nell’acqua del Gange si immergono i cadaveri prima
di bruciarli, nell’acqua del Gange si buttano, non bruciati, ma sistemati tra
due lastroni di pietra, i santoni, i vaiolosi e i lebbrosi, nell’acqua del
Gange galleggiano tutti i rifiuti e le carogne di una città che praticamente è
un lazzaretto perché la gente ci viene a morire. Ebbene, in quest’acqua si
vedono centinaia di persone che si lavano accuratamente, tuffandosi beate,
restandovi immerse fino alla cinta, a sciacquarsi mille volte, a lavarsi bocca
e denti (…)” (3).
Purezza e sporcizia, morte e rinascita, luce e oscurità, come il
contrasto tra il suono del soprano di John Coltrane e il clarino
basso di Eric Dolphy che ipnotizzano simili a incantatori di cobra.
Suoni e note a volte ti cullano, altre ti aggrediscono e non conviene resistere
con la ragione ma abbandonarsi lungo la corrente, cullati dal fluido background poliritmico
creato da Elvin Jones con il suo lavoro su piatti e rullante ricco di
accenti, e dal piano di McCoy Tyner, mentre l’effetto
del tamburo ad acqua creato da due bassi acustici suonati da Jimmy
Garrison e Reggie Workman in maniera incessante, sostiene le
evoluzioni dei solisti, rendendo l’idea di un rito tribale in lontananza. ”Coltrane
era molto affascinato dal tamburo ad acqua indiano, sostanzialmente uno
strumento di bordone che tiene una nota fissa mentre gli altri improvvisano
attorno ad essa.” (4). Lui stesso diceva: “Mi piace che la musica
sia pesante nel profondo” (5). L’atmosfera mistica di India anticipa
quella di “A Love Supreme” (1965, Impulse!) altro capolavoro entrato
a far parte della storia del jazz. L’album “Impressions” originariamente
pubblicato nel 1963 dalla Impulse!, contiene i due brani live al Village
Vanguard insieme a Up ‘Gainst The Wall e After the rain, registrati
rispettivamente nel 1962 e nel 1963 al Van Gelder
Studio. Qui John Coltrane guida il suo “Quartetto classico” a
cui si sono uniti da Eric Dolphy e Reggie Workman sulle
tracce dal vivo. Questa line up gli consente di prodursi
in interminabili, intensi, potenti e drammatici assolo. Pur essendo
il risultato di brani registrati in tempi diversi, l’album contiene alcune
delle molteplici componenti della personalità musicale di Coltrane: il
misticismo e la spiritualità in India, il riferimento a So What del Miles
Davis modale in Impressions, il blues in Up ‘Gainst The
Wall e la predilezione per le ballads nella
sognante After the rain. A tutto questo si aggiunga una costante
progressiva tendenza a distaccarsi dalle consuete modalità espressive del jazz
suonato dai suoi contemporanei con lo scopo di rivoluzionare le regole
dell’improvvisazione, anzi, spazzarle via. Coltrane oscilla tra la
rigida geometria verticale delle sheet of sound che fa pensare alla
perfezione matematica di Bach, alla totale mancanza di punti fissi
felicemente trovata nella New Thing del suo amico Ornette
Coleman. Il senso dell’universo e il suoi misteri comandano la sua vita e la
sua musica: sembra tutto indissolubilmente legato, forse per questo è
affascinato dal pensiero di Albert Einstein: “La cosa più bella
che noi possiamo provare è il senso del mistero. Esso è la sorgente di
tutta la vera arte e di tutta la scienza. Colui che non ha mai provato questa
emozione, colui che non sa più fermarsi a meditare e rimanere rapito in
timorosa ammirazione, è come morto: i suoi occhi sono chiusi.” (6).
Coltrane non
si è mai fermato nella ricerca di nuove forme compositive ed espressive: la sua
smodata curiosità, la sua esuberanza creativa lo hanno spinto oltre le estreme
possibilità dello strumento per raggiungere territori inesplorati; è stata
una breve ma intensa avventura, e di tutto quello che è successo, continuiamo a
goderne i frutti con gratitudine.
“Si ripete così la vecchia storia: il mondo stupendo, e orrendo e io che lo
contemplo, ricco, fin troppo ricco, degli strumenti necessari a
registrarlo”. (7)
Tracks: 00:00 – India / 14:10 – Up
‘Gainst The Wall / 17:25 – Impressions / 32:21 – After
The Rain
Personnel: John Coltrane – soprano and tenor saxophone. McCoy
Tyner – piano (exc. track 2).
Jimmy Garrison – double bass. Elvin Jones – drums
(exc. tracks 4). Roy Haynes – drums (tracks 4).
Eric Dolphy – bass clarinet, alto sax (tracks 1 and 3). Reggie
Workman – double bass (tracks 1 and 3).
(1), (2), (3), (7):
da Pier Paolo Pasolini “L’odore dell’India” con “Passeggiata
ad Ajanta” e “Lettera da Benares”Milano, Garzanti Libri, 2009. (4) da: Joe
Goldberg, “Jazz Masters of the Fifties” New York, MacMillan
1965. (5)citazione da un discorso di John Coltrane tratta
da: Joe Goldberg, “Jazz Masters of the Fifties” New York,
MacMillan 1965. (6) da: Leopold Infield “Albert Einstein” Torino,
Giulio Einaudi Editore, 1962.